Il Tribunale di Roma ha riconosciuto a una donna nigeriana, vittima di tratta e di mutilazioni genitali, lo status di rifugiata e ha condannato l’amministrazione resistente al pagamento di Euro 600 ai sensi dell’art. 96 c.p.c.
Confermando la consolidata giurisprudenza del Tribunale di Roma, il giudice riconosce che la pratica della mutilazione genitale femminile è un atto persecutorio, gravemente lesivo della integrità fisica e della salute della persona, dati gli enormi danni, fisici e morali, alla stessa correlati. La pratica delle MGF integra la fattispecie degli atti di persecuzione per motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale (quello femminile) e costituisce il presupposto per il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 2 e seguenti del Decreto Legislativo 19.11.2007, n. 251.
Il giudice, anche a seguito del colloquio della richiedente con un ente antitratta, ha ritenuto che la ricorrente sia stata con tutta evidenza vittima di tratta, «sussistendo tutti gli indicatori relativi a tale fenomeno: la zona di provenienza, la giovane età, nucleo familiare fragile, il viaggio, per il quale ha contratto un debito elevato , il rito juju, come fattore di controllo e coercizione, l’allontanamento dal centro di accoglienza, la prostituzione forzata in Italia». E’ opportuno evidenziare come la stessa Commissione abbia rilevato «importanti indicatori di tratta», ma ciononostante abbia escluso la protezione, ritenendo la vicenda narrata dall’istante «generica e poco verosimile, e pertanto non tale da poter configurare un fondato timore di persecuzione».
Il giudice afferma che – costituendo una grave forma di persecuzione legato all’appartenenza ad un determinato gruppo sociale, il genere femminile – la tratta a fini di sfruttamento sessuale da diritto al riconoscimento dello status di rifugiato di cui all’art 7 del d.lvo n. 251/07.
Si segnala, infine, la condanna per lite temeraria dell’amministrazione resistente, ai sensi dell’art. 96 c.p.c.. La Commissione Territoriale ha infatti resistito in giudizio, chiedendo il rigetto della domanda, che appariva invece manifestamente fondata, anche alla luce del certificato medico attestante le MGF depositato unitamente al ricorso.
Il Tribunale di Roma ha riconosciuto a M., assistito della Clinica di nazionalità maliana, la protezione sussidiaria alla luce della particolare gravità della situazione del paese di origine del ricorrente, di recente aggravatasi.
Il Tribunale ricorda l’onere del giudice di non limitarsi ad un accertamento prevalentemente fondato sulla credibilità soggettiva del ricorrente ma di verificare la situazione del paese ove dovrebbe essere disposto il rientro (Cass. Ord. n. 17576 del 27/07/2010), avvalendosi dei poteri officiosi d’indagine ex art. 8 D.lgs n. 25 del 2008.
Il giudice afferma che il «concetto di “conflitto locale”, di cui all’art. 14 del d.lgs. 19 novembre 2007 n. 251, non può essere inteso solo nel senso di guerra civile, ricomprendendo, invece, tutte quelle situazioni in cui gli scontri o le forme di violenza, anche diversificati nella loro genesi, tra opposti gruppi di potere o di fazioni varie abbiano assunto connotazioni di persistenza e di stabilità e livelli significativi di diffusione, sfuggendo al controllo degli apparati statali o giovandosi della contiguità culturale e politica di questi».
Tenuto conto della situazione ricavata dalle fonti consultate, il giudice ritiene dimostratato «il serio rischio all’incolumità fisica cui sono esposti i civili, oltre alla continua e radicata violazione dei diritti fondamentali della persona» in Mali. Tale accertamento esime quindi il richiedente «dal fornire prova del rischio specifico che il ricorrente correrebbe nel caso di rientro nella zona di provenienza (v. Sentenza CGUE, 17 febbraio 2009, C-465/07, caso Elgafaji)».